Iogu, e il pianeta XXZ32
Mi presento, sono Iogu Morenio, ho ventotto anni e vivo a Roma ventunesimo secolo, sul pianeta Terra. Lavoro come ricercatrice e vorrei narrare la mia storia. Dunque, tutto è iniziato con una telefonata.
“Pronto?” alzai la cornetta gialla e risposi.
“Pronto Iogu sono io, Sonimor” rispose il mio interlocutore, che aveva una voce familiare.
“Salve capo, ci sono novità?” domandai, riconoscendo la voce del mio capo di lavoro, Sonimor.
“Siamo finalmente riusciti a collocare l’ultimo elemento nel terzo settore. Ora la macchina del tempo è pronta. Vieni stasera e la testeremo per la prima volta.” Mi informò poi.
Erano dunque otto anni che io e i miei colleghi lavoravamo ad un prototipo di macchina del tempo e se dovesse funzionare, violerebbe tutte le leggi spazio-temporali trasportandoci in un’altra era. Un’idea assurda, almeno fino a quella stessa sera.
Ebbene, mi presentai a lavoro verso le 18,00, percorsi la piccola Hall iniziale ed entrai nel mio ufficio quando una scena abbagliante si presentò ai miei occhi.
Un bagliore, una scia luminosa, un arco color oro che doveva essere l’entrata della macchina del tempo dal quale si intravedevano, dall’altra parte della stanza, i miei colleghi.
“Cosa succede?” domandai.
La mia domanda, però non ebbe alcuna risposta.
Pensai che avessero già testato la macchina senza di me e capii che il loro corpo materiale era lì mentre la loro anima doveva essere già in un’altra era. Mi avvicinai. Erano pallidi, sembravano morti eppure di tanto in tanto sbattevano le palpebre o sussurravano parole incomprensibili.
Decisi di oltrepassare l’arco e raggiungerli. Un sospiro. Entrai. Secondo il progetto, la macchina ci avrebbe dovuto portare nel futuro, più precisamente nel venticinquesimo secolo, anno 2435, ventuno settembre, pianeta Terra. Dunque aprii gli occhi ma niente mi era familiare. C’erano alti e maestosi castelli, con strane decorazioni gotiche, fiori viola alti quanto me e, cosa ancora più strana, giravano per la strada, esserini alti almeno tre metri, di un colore giallastro, gambe che dovevano essere perlomeno il doppio del corpicino esile, occhi verdi smisurati, orecchie a punta, bocca alquanto carnosa di colore giallo acceso e un terzo braccio collocato dietro la schiena. Portavano strani abiti molto aderenti con i bordi violacei uniformati al corpo. Poi riconobbi i miei colleghi, che conversavano con uno di essi.
Li raggiunsi. Gli esseri con cui stavano parlando mi guardarono come se fossi stato io l’alieno.
“Dove mi trovo?” chiesi allora.
“Pianeta XXZ32, anno 2435, ventuno settembre, ore 34,30 luna rossa diurna, stagione Spadurtera” mi rispose uno strano esserino con una grande chioma rosa.
“Ciao Iogu, che piacere incontrarti di nuovo, hai visto, la nostra macchina del tempo funziona!” intervenne in quel momento un mio collega.
“Non siamo dove speravamo ma qui potremmo continuare e nostre ricerche, scattare delle foto da portare come prova e soprattutto, aiutare gli abitanti di questo pianeta, gli XXZ32ani minacciati dai malvagi Opitrus, abitanti della galassia Esperia che vogliono distruggere questo pianeta con tutta la sua galassia.” Continuò il mio capo, Sonimor.
“Dobbiamo aiutarli Iogu” attaccò in quel momento un altro mio collega “Sei una donna coraggiosa, aiutaci”
“Vi aiuterò, ma come?” domandai, quasi del tutto convinta.
“Lei è Mogpa, ti spiegherà tutto.” Rispose l’esserino che all’inizio aveva parlato.
Mi voltai e vidi Mogpa, carina, anche lei alta, pelle rossastra e una folta chioma verde-azzurra che le ricadela sulle spalle ricurve e sul terzo braccio dietro la schiena.
“Ebbene, la leggenda di questo pianeta dice che per salvarci dalla distruzione totale dobbiamo trovare lo scettro di Ubsinor, che si trova nella buia galleria dei trabocchetti di Piocosmia, quell’alta rupe laggiù, e puntarlo stanotte a mezzanotte dalla vetta del monte Norpotio verso la luna in modo da creare una barriera e bloccare le minacce dei malvagi Opitrus” mi spiegò Mogpa, con una voce metallica e uno strano accento.
Arrivati alla rupe, entrammo nella galleria dei trabocchetti, una buia galleria piena zeppa di trappole e pericoli. Ci mettemmo d’impegno, e, anche grazie alla magica borsa di Erdolph, un altro XXZ32ano, amico di Mogpa, nella quale si poteva trovare tutto l’occorrente necessario a disinnescare le trappole, riuscimmo a superare la prima trappola che consisteva in quattro lame taglienti appese al basso soffitto che ci impedivano il transito. Dopo aver affrontato questa trappola, ne ritrovammo altre più complicate come una stanza con un pavimento di legno girevole, un fiume infuocato da saltare, ma anche svariati enigmi come tanti scoglietti con su incise le lettere dell’alfabeto che si dovevano saltare in ordine, oppure i mattoni del muro che conduceva alla stanza finale che era costituito da cinque file e quattro colonne di disegnini che dovevamo spostare in modo da rendere una sola figura, o lame taglienti, pipistrelli minacciosi,ma finalmente, superato l’ultimo enigma riuscimmo a intravedere lo scettro a seguito di un lungo ponte tanto fragile che se anche io da sola avessi provato ad attraversarlo, non mi avrebbe retto di sicuro.
“Come lo superiamo adesso?” domandai.
“Io avrei un’idea!” esclamò Mogpa in quel momento.
Venni a scoprire dunque, che nel pianeta XXZ32 vivevano degli strani animali, simili a unicorni,gli Spictor ai quali spuntavano le ali solo se cavalcati da giovani donne coraggiose terrestri, e che io ero la persona più indicata per farlo.
Dunque Mogpa fischiò e da dietro un’alta siepe, spuntò immediatamente l’animale, incantevole. Aveva un manto color argento con riflessi blu notte, una criniera dorata dalla quale si intravedeva una treccina blu come i riflessi del manto, dei magnifici occhi verde acqua cristallina e un magnifico corno rosso rubino posizionato al centro dell’imponente fronte.
Montai in sella delicatamente e all’animale spuntarono due ali meravigliose, argentate con delle decorazioni nere e perle dorate che luccicavano. Il cavallo mi condusse fino alla fine del ponte dove afferrai saldamente lo scettro e ritornai indietro.
“Sei stata fantastica Iogu” esclamò il mio collega.
Quella notte a mezzanotte precisa puntammo lo scettro verso la luna e tante scie di luce invasero completamente il pianeta. Un bagliore acuto ci abbagliò mentre un forte rumore persuadeva l’atmosfera.
Di colpo, aprii gli occhi. Ero a casa mia, sdraiato comodamente sul divano. Avevo salvato il pianeta XXZ32.
Silvia Iannoni 3 H
Storia di una ragazza che non amava il suo corpo
Daria era una quindicenne, la sua passione era la danza e non passava giorno in cui non infilava le sue scarpette da punta con i laccetti di raso incantando chiunque le spesse intorno, anche quando non aveva lezione. Era un’allieva della prestigiosa scuola di ballo del San Carlo, a Napoli. I ricordi che ho di lei sono pochi e confusi: capelli di un biondo quasi angelico, occhi color acqua stagnante, naso proporzionato e bocca sempre intenta in una smorfia pensierosa, come quella che usava quando si accingeva a ricordare i passi di una coreografia particolarmente difficile.
Ricordo invece quel giorno perfettamente, perchè fu li che i suoi complessi ebbero origine. Io ero la sua migliore amica nonchè compagna di corso a danza. In quella piovosa giornata d’Aprile eravamo sedute al tavolo del bar “Gustavo”, dove ci fermavamo sempre prima della lezione per un cornetto. Come al solito io lo presi alla crema, ma lei si rifiutò di gustare il suo croissant consueto con la Nutella.
“Non me lo posso permettere.” Mi disse.
“Ma cosa dici? Sei magra come un chiodo!” ribattei io.
“Forse stai parlando di te” rispose.
Non osai controbattere e continuai a rimpinzarmi di quell’ottimo cornetto, immaginando che il suo fosse solo un complesso temporaneo, che poi sarebbe svanito.
I giorni procedettero in modo normale, fin quando un pomeriggio, nel bel mezzo della lezione, non cadde sul pavimento, priva di sensi, come una pera cotta. Tutti ci preoccupammo e dopo averla rinvenuta le chiedemmo se avesse mangiato. Assunse un’espressione imbronciata, prima di esordire con la solita frase: “non me lo posso permettere”.
A quel punto noi tutte allieve del corso e l’insegnante tentammo di farle capire che non aveva bisogno di non mangiare, perché il suo fisico era perfetto, finchè quella non perse le staffe e tra un singhiozzo e l’altro mugugnò:
“E’ facile parlare per voi tutte, ma io ogni mattina ho voglia di spaccare lo specchio, di spaccare la bilancia, di spaccare ogni cosa che ricordi il mio fisico. Non riesco a sopportare le occhiate delle persone quando cammino per strada, a sostenere lo sguardo preoccupato di mia madre…” detto questo scoppiò in un pianto disperato e pieno d’angoscia, e uscì dalla sala.
Dopodichè ogni giorno che mi capitava di incontrare Daria, e questo accadeva di rado perché non ci frequentavamo più come prima, la vedevo più magra, sempre più scheletrica; riuscivo a scorgere ogni minima costola, ogni minimo tendine che facesse parte di quel corpicino sformato. La sua pelle era grigiastra, i suoi meravigliosi occhi verdi erano quasi fuoriusciti dalle orbite, la forza le mancava del tutto e non c’era giorno dove non svenisse a lezione. Tutti tentavamo di farle capire la gravità della situazione, ormai il suo caso era noto a tutta la scuola di ballo e non c’era nessuno che non volesse aiutarla ad uscirne.
Una triste mattinata d’estate, ricordo di averla vista osservare con ingordigia un panino e averlo trafugato e divorato in men che non si dica, per poi pentirsene, pagare il negoziante e, una volta uscita, infilarsi due dita in gola e farlo uscire così come era entrato.
Fu per me un colpo al cuore quando mi arrivò la notizia che addirittura Daria, così presa dalla forma era impazzita e rinchiusa in manicomio, come se la sua vita non fosse già ricca di problemi. Da allora non la rividi mai più, ma donai soldi al manicomio per aiutare la sua famiglia a pagare la terapia. Mi domando che fine abbia fatto: i suoi complessi sulla forma fisica, dopo averla allontanata da ciò che amava fare, l’avranno condotta alla morte?
Silvia Iannoni 3 H
L'ultim' ora del gentil padrone.
Nell’ombra della stanza solo una cosa l’illumina,cioè qualcosa. Una giovane donna sui diciotto anni dal colore perlaceo e splendente svolazza sul soffitto. non appartiene al nostro mondo. E’ un fantasma. dopo un po’si avvicina ad un uomo,steso sul letto,il colore biancastro indica che gli resta poco tempo. ad un certo punto,l’uomo nota il fantasma,così dice -Oh teresa,dolce teresa,sapevo che saresti venuta nell’ultim ora del gentil padrone!- il fantasma,allora,gli dice -Giacomo amato,sono venuta a prenderti,ma prima vorrei sapere tutto ciò che ti è capitato dalla morte mia ad oggi- da felice,il viso della donna si fece impaziente,allora,Leopardi fece un sospiro e disse -Teresa mia,ti ho dedicato una manciata di versi,li ho chiamati…-la donna lo interruppe e gli disse -A silvia,lo so,lo so,ma prego,continuate- Leopardi la guardò per un istante,poi il suo sguardo si spostò sulla finestra-Non ho fatto altro che comporre all’infinito,senza godermi il caro Ranieri e te,Teresa mia. Nonostante il talento donatemi dalla natura essa mi ha reso fragile, e mi ha convinto nella mia infelicità,nella mia solitudine. Non ho mai creduto in Dio,anche se sapevo fosse l’ultima scialuppa per la mia anima. Conosco il greco,il latino,eppure non sono ancora completo;ho lasciato Recanati varie volte,credevo che ciò mi avrebbe reso migliore,ma mi sbagliavo. Mi manca la mia famiglia matrigna,ed ora giacerò sempre qui,senza mai chiedergli scusa del mio vagabondar. Ho composto magnifiche poesie:Il sabato del villaggio,L’infinito,Il passero solitario…eppure i giovani delle prossime ere mi ricorderanno come un vecchio bacucco pessimista,ed io non ci potrò fare niente.-concluse -Giacomo caro,almeno di te si ricorderanno,ma di me? Mi ricorderanno come l’irragiungibile Teresa,oppure si dimenticheranno completamente!-disse Teresa .Non corrucciarti cara mia,ora fammene andare via da quest’orrendo,fragile corpo malato- appena Leopardi finì di dire questo Teresa gli prese la mano e tiro. L’anima di Leopardi si staccò dal corpo e prese forma di un bel ragazzo ventenne. I due passarono attraverso la finestra e si diressero alle falde del Vesuvio. Leopardi si fermò a raccogliere una Ginestra. La rigirò tra le dita e disse-Agli uomini,che un giorno potranno sconfiggere la matrigna natura!- e lanciò il fiore alle spalle. I due raggiunsero la cima del vesuvio e si tuffarono nella lava bollente.
Caterina Primativo 3 H
Per quel giorno di pioggia
“Ci vediamo dopo allora”
“A dopo”
Salutai Loredana, aprii l’ombrello e trascinai gli stivali sull’asfalto bagnato: pioveva a dirotto. Camminavo controvento, i capelli bagnati disegnavano un’onda che mi seguiva. Iniziò a grandinare. Il duro rumore dei chicchi sull’ombrello mi aiutava a pensare. Fino a quel momento la mia era stata una vita serena e pacata. Avevo 23 anni, vivevo a Messina in un comodo appartamento che dividevo con Loredana, la mia coinquilina nonché migliore amica. Non avrei mai immaginato che la mia vita si sarebbe trasformata in un inutile sacco sottratto delle sue patate e pronto per essere gettato.
Ma torniamo a quel pomeriggio; camminavo sotto la grandine indirizzata verso il supermercato più vicino. Voltai l’angolo e fui invasa dall’odore di fumo. Alla mia destra vidi un gruppo di circa sei uomini, ognuno con una sigaretta in mano: erano vestiti di nero e se non fosse stato per la nuvoletta di fumo non li avrei notati. Anche se bisbigliavano, l’eco mi permetteva di sentire le loro parole.
“Siamo pronti” diceva una voce roca e consumata.
“Ho già posizionato la benzina” rispondeva un uomo con la statura di un armadio.
A quel punto avrei dovuto scappare a gambe levate perché il terzo uomo tirò fuori dal giubbotto un accendino.
“Tieni, fai con cautela” disse porgendolo all’uomo-armadio. Lì notai la chiazza di benzina che circondava la ferramenta, obiettivo del “pizzo” mafioso.
Girai i tacchi. Avevo visto troppo. Gli stivali di gomma però mi tradirono, emettendo uno scricchiolio sinistro.
“Cos’è stato?” sentii alle mie spalle.
Un’adrenalina sconosciuta mi sorprese e iniziai a correre goffamente verso casa. Sentii una mano afferrarmi le spalle. Prevedibile: cosa potevo fare da sola contro sei uomini mafiosi?
L’uomo-armadio mi puntò una pistola sulla tempia sinistra e smisi di divincolarmi all’istante.
“Cos’hai visto?” domandò.
“Non…Non ho visto nulla!” balbettai con un fil di voce.
“Menti! Cosa credi, che non ti abbiamo sentito? Se non vuoi che ti uccida sedutastante non fare parola a nessuno di quello che hai visto! Ti seguiremo e se scopriremo che da quella bocca è uscita una sola parola, porremo fine alla tua inutile vita!”
Il terrore invase ogni singola vertebra della mia schiena. Quella frase, sussurrata con un forte accento siciliano, mi pietrificò.
“Cosa c’è, hai perso la voce? Meglio così, almeno non spiffererai nulla” detto questo, mi scaraventò sul cemento bagnato senza ritegno e corse via, seguito degli altri cinque. Ci volle mezz’ora, prima di riuscire a capire cosa mi fosse accaduto e alzarmi. Con le gambe indolenzite e gli occhi iniettati di sangue raggiunsi la porta di casa e bussai.
“Carmela, cosa ti è successo?” domandò preoccupata Loredana.
“Il supermercato era chiuso. Sono caduta” furono le uniche parole che riuscii a pronunciare.
Era sempre stata la mia migliore amica, sempre pronta ad ascoltare. Ma da quel giorno c’era un segreto che non le potevo rivelare. Dopo una doccia e una tazza di cioccolata calda trascorsi una notte lunga e agitata.
“Aiuto! Aiuto! Qualcuno mi aiuti” gridavo invano.
“Non c’è nessuno per te! Sei spacciata!” rispondeva una voce alle mie spalle.
Nonostante scongiurassi di non uccidermi, l’uomo-armadio continuava a inseguirmi.
“Carmela! Carmela!”
Aprii gli occhi e riconobbi la sagoma di Loredana che mi chiedeva cosa avessi sognato.
Tirai un sospiro di sollievo. Era un incubo per fortuna.
Eppure sentivo che prima o poi si sarebbe realizzato.
“Sono le tre! Cosa è successo? Continuavi a balbettare cose come <<accendino>> o <<negozio>> o <<minaccia>>”
Le dissi che non ricordavo. Se le avessi raccontato tutto non mi avrebbe tradito, ma era comunque meglio non trascinarla con me.
I giorni seguenti furono infernali. Quei loschi individui avevano mantenuto la promessa e avevano iniziato a seguirmi. Ovunque andassi sentivo l’ombra di un’Audi A7 che non mi mollava mai.
Un giorno presi lo scooter e mi avviai verso casa dal lavoro; automaticamente guardai dallo specchietto retrovisore e con grande sorpresa mista a sollievo notai che la mia ombra non c’era.
Evidentemente mi avevano dato un giorno di tregua dopo mesi che non succedeva nulla. Il mio sguardo si indirizzò verso il commissariato. Poi verso casa. Una parte di me mi suggeriva di approfittare e di andare a denunciare tutto ma la Carmela paurosa mi pregava perché tornassi a casa. Diedi retta alla prima voce e con uno scatto fulmineo andai nella caserma di Polizia. Raccontai per filo e per segno ogni particolare. Mi dissero che mi avrebbero messo sotto scorta e ricevetti i complimenti per il mio coraggio. Avevo fatto la scelta giusta?
Questo manoscritto, firmato Carmela Pariddi, è stato trovato qualche settimana fa a casa dell’interessata. E’ datato 29\03\2006, esattamente tre anni prima del ritrovamento di un corpo in un pozzo d’acido. Nonostante i tratti somatici fossero irriconoscibili perché troppo consumati, siamo giunti, in merito a una serie di indizi alla conclusione che la giovane mentre attendeva l’arrivo della scorta, sia stata rapita e gettata nel pozzo d’acido perché “sgamata” dal gruppo di mafiosi che non hanno avuto alcuna pietà. Ricordiamo oggi il coraggio e l’innocenza della ragazza che sacrificando la sua vita ci ha permesso di catturare la banda.
Sivia Iannoni 3 H
Racconti ,racconti,racconti : a noi piace scrivere !!!!!!
storia di un emigrante
Mi chiamo francesca e sono nata in Calabria nel 1952 da una modesta famiglia di contadini.
All’età di sei anni sono stata costretta ad emigrare in Germania con i miei genitori per andare in cerca di condizioni di vita migliori e di lavoro.
L’Italia, infatti, viveva un periodo di crisi subito dopo la 2° Guerra Mondiale e la Germania aveva bisogno di molta manodopera per le sue industrie appena nate; ciò determinò la decisione di stabilirsi definitivamente in quella nazione.
Ricordo che mio padre lavorava moltissime ore in fabbrica e solo la domenica riuscivamo a stare insieme.
Sia per i miei genitori che per me è stata molto difficile l’integrazione in Germania dato che il popolo tedesco ha manifestato sempre molti pregudizi nei confronti degli italiani.
A scuola nessun bambino mi rivolgeva la parola, venivo guardta dall’alto in basso e presa in giro quando cercavo di parlare il tedesco, imitando quella che loro definivano la “parlata italiana”. Io allora mi sentivo spesso triste e rimpiangevo l’Italia.
All’età di 17 anni però, ho incontrato una persona molto speciale, Matteo, un Italiano come me, che è diventato mio marito.
Dal nostro matrimonio è nato Francesco e siamo molto felici.
In estate andiamo in vacanza in Calabria, la mia terra d’origine alla quale sono molto legata
Ilaria Moschetta 3H
La nebbia di persone
Si ha una strana sensazione quando si entra ad Auschwitz. E’ come se tutto girasse vorticosamente attorno a te e non lo puoi fermare. Una sciabola ti si conficca in gola,nello stomaco,nel cuore,nel cervello. Trafiggono ogni lembo della tua pelle,senza lasciarti un minuto di pace e di tranquillità. Non puoi guardare un vecchio edificio che subito ti vengono in mente dei volti,tutti bianchi e privi di vita. I bellissimi e vitali occhi dai mille colori tutti spenti,colorati di un rosso che ricorda le fiamme,quelle usate per scioglierli,ancora vivi ma incapaci di ragionare. La ragione si perde appena entrati,non capisci più niente,ti sembra di vedere i personaggi di libri autobiografici sui campi di concentramento. Quelle persone che un tempo lavoravano al Sonderkkommando,che bruciavano i corpi e ci spalmavano il loro stesso grasso,per farli sciogliere meglio. Ma non erano cattivi,se non li avrebbero bruciati una spietata SS li avrebbe gettati nel fuoco,insieme agli altri. Quelle vite spente e cancellate dalla faccia della terra,molti di loro non hanno nemmeno una tomba,perché non si è ancora accertata la loro morte. Di alcuni abbiamo delle foto scattate dagli stessi tedeschi,che le prendevano e le mandavano in diretta sui televisori impolverati e rari,per spiegare,ai connazionali,la pericolosità degli individui di razza ebraica. Gli ebrei che non avevano nemmeno la forza di alzare un dito,come avrebbero potuto dare del fastidio agli ariani? Credo che questo sia solo un decimo di come i turisti vivono il campo realmente. Si è circondati dalla nebbia,ma non una di quelle normali,una nebbia formata da pensieri,parole mai dette,da disperazione,da urla, da distruzione. Una nebbia di qualcosa di invisibile e presente,ancor più della vita stessa. Una nebbia di visi,sorrisi,labbra,di bestie e animali da macello. Quando i prigionieri muoiono non lasciano mai la loro tomba. E io lo so,perché,di questa nebbia,ne sono parte anche io.
Caterina Primativo 3 H